Analizziamo opportunità e limiti della pubblicità per gli enti sportivi non profit, chiarendo che la comunicazione può essere uno strumento legittimo e coerente con la missione sociale.

Il punto di partenza: una necessità comunicativa
Nel contesto attuale, in cui la comunicazione digitale e la promozione sono strumenti imprescindibili per ogni realtà attiva nel territorio, anche le associazioni e società sportive dilettantistiche (ASD e SSD) si trovano nella necessità di comunicare le proprie iniziative, promuovere corsi, eventi e attività rivolte alla cittadinanza. Tuttavia, questa esigenza comunicativa si scontra, talvolta, con una visione rigida da parte degli organi di controllo, che possono interpretare la pubblicità come indizio di attività commerciale e quindi contestare la legittimità del regime fiscale agevolato di cui tali enti godono.
Il rischio percepito è quello della perdita delle agevolazioni fiscali riservate agli enti sportivi dilettantistici senza fine di lucro. Il presente contributo intende fare chiarezza, proponendo una riflessione che riporti il dibattito nella sua dimensione più equilibrata.
Perché le ASD e SSD fanno pubblicità?
Le ragioni sono molteplici e del tutto legittime: informare gli utenti sull’inizio di un nuovo corso, promuovere una giornata gratuita per far provare lo sport ai più giovani, comunicare le attività associative in occasione di eventi locali, rafforzare la propria visibilità per attrarre nuove adesioni.
Tutte queste iniziative, seppur promozionali, rientrano nella missione delle associazioni sportive: diffondere e incentivare la pratica sportiva dilettantistica, in linea con i principi statutari e con il riconoscimento da parte di Federazioni o Enti di Promozione. La comunicazione, quindi, non è fine a sé stessa, ma strumento per l’attuazione degli scopi sociali.
Il rischio dei controlli: un’interpretazione restrittiva
Tuttavia, in sede di verifica fiscale, l’utilizzo di mezzi pubblicitari viene talvolta considerato indice di attività commerciale. Lo evidenzia, tra le altre, la circolare 18/E dell’Agenzia delle Entrate (2018), in cui si afferma che l’impiego di insegne, marchi, locali attrezzati o forme pubblicitarie può comportare la riqualificazione dell’attività come svolta secondo modalità di mercato.
In particolare, l’Agenzia chiarisce che la vendita di beni o servizi supportata da una promozione strutturata e rivolta a un pubblico ampio e indistinto rischia di uscire dal perimetro istituzionale, compromettendo l’accesso al regime agevolato della L. 398/1991.
È qui che nasce la difficoltà interpretativa per le ASD e SSD: quando la comunicazione è legittima e quando, invece, rischia di travalicare i confini della finalità associativa?
Pubblicità ≠ Attività commerciale: cambiamo prospettiva
Proviamo a ribaltare l’approccio. L’errore sta forse nel considerare ogni forma di promozione come uno strumento esclusivamente commerciale. Ma la pubblicità, di per sé, non ha una connotazione negativa.
Esiste anche la pubblicità con finalità sociali: basti pensare alla celebre “Pubblicità Progresso”, che ha la funzione di sensibilizzare l’opinione pubblica su temi di interesse generale, stimolando la riflessione e la promozione di comportamenti virtuosi.
Ricordiamo che lo “sport” è un tema di interesse generale, come definito dal legislatore anche nel Terzo Settore. Allo stesso modo, gli enti sportivi dilettantistici che promuovono il minibasket per bambini, o organizzano open day gratuiti per far conoscere l’attività sportiva nel quartiere, non stanno facendo concorrenza a una palestra commerciale, ma stanno adempiendo alla propria funzione sociale e statutaria.
Occorre distinguere il mezzo di comunicazione dalla finalità per cui viene utilizzato.
Un esempio virtuoso: la pubblicità sociale di “Pubblicità Progresso”
Per comprendere come la pubblicità non debba necessariamente coincidere con attività commerciali, è utile citare l’esperienza di “Pubblicità Progresso”, fondazione non profit nata nel 1971 con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica su temi di rilevanza collettiva. Le sue campagne Ð gratuite, professionali e diffuse su vari canali Ð promuovono comportamenti virtuosi in ambiti come la salute, la sostenibilità, l’etica e la solidarietà. Si tratta di pubblicità che non vende un prodotto, ma stimola consapevolezza sociale. Un modello che dimostra come, anche nel mondo sportivo dilettantistico, comunicare i propri valori e finalità associative possa essere parte integrante della propria missione senza per questo trasformarsi in attività commerciale.
Comunicazione come missione sociale
È tempo di valorizzare il ruolo comunicativo delle ASD e SSD per quello che è: uno strumento per coinvolgere nuovi praticanti, contrastare la sedentarietà, includere persone fragili, promuovere l’integrazione sociale.
La loro missione è portare quante più persone possibile a fare sport. Questa è promozione, sì, ma dello sport e dei suoi valori, non del profitto.
L’articolo da me scritto tanti anni fa, pubblicato sul sito dello Studio Mattonai nel 2012 lo anticipava già con chiarezza: per una ASD o SSD la comunicazione è parte integrante della funzione associativa. Lo scopo non è “vendere corsi” ma “far conoscere l’attività” e facilitare l’accesso a uno stile di vita attivo, senza finalità lucrative. Demonizzare la comunicazione, dunque, significa fraintendere il ruolo stesso dell’associazionismo sportivo.
Conclusioni
Comunicare è necessario, e nel mondo sportivo dilettantistico è anche doveroso. Le ASD e SSD hanno una missione sociale chiara: avvicinare le persone, soprattutto giovani e categorie fragili, alla pratica sportiva. Per farlo, oggi più che mai, serve anche saper comunicare con strumenti moderni.
È importante però che la comunicazione sia coerente con l’identità non lucrativa dell’ente e non scivoli in logiche aggressive o da mercato competitivo. Ma questo non significa che promuoversi sia vietato: lo ha riconosciuto anche l’Agenzia delle Entrate nella circolare 18/E del 2024, dove, al paragrafo 7.6, chiarisce che la pubblicità, la cartellonistica o le agevolazioni sulle quote associative non costituiscono, di per sé, elementi sufficienti per qualificare l’attività come commerciale.
Si tratta, eventualmente, di indizi da valutare nel loro complesso, e non di violazioni automatiche. Questo approccio più permissivo va nella direzione auspicata: riconoscere che la promozione può essere parte integrante della funzione educativa e aggregativa delle ASD e SSD, quando è svolta in modo trasparente e finalizzata all’interesse generale.
In sintesi, fare pubblicità non è un tabù. Serve criterio, serve equilibrio, ma soprattutto serve consapevolezza. Le associazioni e società sportive dilettantistiche devono sentirsi libere di raccontarsi, informare e attirare partecipanti, senza paura di essere automaticamente considerate “imprese”.
Con il giusto stile, con regole interne chiare e con il supporto di consulenti esperti, è possibile fare comunicazione in modo moderno e sicuro, senza rinunciare alla natura associativa.
Luca Dott. Mattonai
Tributarista, titolare dello Studio Mattonai
Dello stesso autore potrebbe interessarti anche:
Nuovo rimborso Spese Forfettario per volontari sportivi (DL 71/2024)